Fu una cosa strana, nel senso di estranea
al momento che stavano vivendo.
Giocavano a pallone e, in
un attimo di pausa, Fulvio si avvicina a Ciro e, con un insolito tono serio:
- Ciro,
stammi a sentire. Le cose si stanno mettendo male. Va a finire che ci mandano tutti e due a fare la guerra. Io volevo dirti una cosa.
Se dovesse succedere
qualcosa, insomma se dovesse succedere che…
- Fulvio,
ma la vuoi finire di…
- Per
favore è una cosa importante. Se non dovessi tornare
mi prometti che un tuo figlio lo chiamerai Fulvio come me?
- Ma
che cazzo ti prende…
- E se non torni tu, io ti giuro che il mio lo chiamo Ciro,
come te.
Così continueremo a ricordarci.
Ciro capì che faceva sul serio, esitò, un attimo di
sbandamento e poi:
- Va
bene. Prometto. Tranquillo?
- Si.
Grazie, prometto anch’io.
- E
adesso finiamo questa stronza di partita e vediamo di essere prudenti perché Ciro e Fulvio sono due brutti nomi
che meno si usano e meglio è.
Diciannove
anni
Un dialogo come questo non può avere come
protagonisti due diciannovenni. Non deve. È un racconto letterariamente
sbagliato. Ma è una storia tristemente vera e allora è la
Storia che è sbagliata: la Storia con la
S maiuscola.
Ciro è mio padre, Fulvio non ce
la fece a tornare ed io mi chiamo Fulvio. Fine delle trasmissioni ?
No non può finire così, i profumi di famiglia e di
guerra sono ancora troppo forti.
* *
*
Ne
voglio leggere un altro e clicco
sull’ombrellone Brutti
pallosi vi clicco e vado
via